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25 novembre, oggi è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne

“Vincerà la donna che consentirà a se stessa e alle altre di mangiare, di essere sessuale, di invecchiare, di indossare una tuta da lavoro, una tiara di strass, un abito di Balenciaga, un mantello da sera di seconda mano o degli anfibi da combattimento; di coprirsi di andare in giro praticamente nuda; di fare tutto quello che vuole perseguire – o ignorare – la propria estetica. Vinceremo quando saremo convinte che è affar nostro quello che facciamo col nostro corpo. Quando molte singole donne si libereranno dell’economia, questo incomincia a dissolversi. Le istituzioni, certe donne certi uomini continueranno cercare di usare il nostro aspetto contro di noi. Ma non abboccheremo”. 

Oggi, 25 novembre è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, e mai come quest’anno ci sentiamo di voler celebrare e rammentare questa ricorrenza e questo giorno partendo da una citazione dal saggio pionieristico Il mito della bellezza, di Naomi Wolf, recentemente ripubblicato in Italia grazie a Tlon.

Oggi è la Giornata contro la violenza sulle donne: i dati

La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne è importante celebrarla, rammentarla perché ancora oggi in Italia i dati mostrano una realtà agghiacciante e inaccettabile. I dati del Report del Servizio analisi criminale della Direzione Centrale Polizia Criminale aggiornato al 19 novembre 2023 evidenzia che nel periodo 1 gennaio – 19 novembre 2023 sono stati registrati 295 omicidi (+4% rispetto allo stesso periodo del 2022), con 106 vittime donne (-3% rispetto allo stesso periodo del 2022 in cui le donne uccise furono 109). In Italia i dati Istat mostrano che il 31,5% delle donne ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Le forme più gravi di violenza sono esercitate da partner o ex partner, parenti o amici.

Secondo l’ultima nota Istat sulle vittime di omicidio, nel 2022 sono stati commessi 322 omicidi (+6,2% rispetto al 2021). Le vittime sono 196 uomini e 126 donne (il 39,1% del totale). L’età media delle donne vittime di omicidio è pari a 55,1 anni. I dati mostrano per il 2022 un aumento del numero di donne uccise da parenti (0,14x100mila donne, 0,10 nel 2021). Nei casi in cui si è scoperto l’autore, il 92,7% delle donne è vittima di un uomo. Le donne uccise da un partner o ex partner, tutti di sesso maschile, sono 61. L’Istat stima che i femminicidi siano 106, sul totale delle 126 donne uccise. Gli omicidi di genere rappresentano l’84,1% degli omicidi di donne.  

Il mito della bellezza e violenza di genere

Ritornando al saggio di Naomi Wolf, leggendolo si comprende fin da subito quanto sia un saggio fondamentale, importantissimo per la nostra contemporaneità, e nelle cui pagine si assaporano tutti gli anni trascorsi: la prima pubblicazione è datata 1991, e da allora, come si può immaginare, sono cambiate molte cose, a partire dagli studi di genere, i dati, la società, la sensibilità, il linguaggio. Però le dinamiche e il mito della bellezza che una donna vive, attraversa e ha effetto sulla sua fisicità e sulla sua esistenza, non sono cambiate. L’eredità determinante e cruciale che ci ha lasciato questo saggio è quella di aver indagato con occhio lucido ed estremamente analitico e coerente l’intersezione tra pubblico e privato, tra percezione personale e sguardo collettivo. 

L’ideologia della bellezza, come essa sia rafforzata e si cicatrizzi nella mente delle donne, non riguarda solo le donne, ma il potere e soprattutto gli uomini. È qualcosa che ha molto a che fare con la politica, la repressione sessuale, l’economia, ed è qualcosa che “prescrive dei comportamenti più che un aspetto esteriore”. 

Ma facciamo un passo indietro. Cosa c’entra il mito della bellezza, e la sua permeabilità nella contemporaneità, e la ricaduta sulla società di oggi, con la violenza di genere? 

Naomi Wolf nel suo saggio intramontabile mostra come nella cultura occidentale la forma più efficace di controllo sociale sulla donna avvenga proprio attraverso la creazione del mito della bellezza: “Quanto più le donne si avvicinano al potere, tanto più si chiede loro un’autocoscienza fisica e la bellezza diventa la condizione necessaria per fare il passo successivo”. La cosa più urgente, spiega Wolf, è che l’identità delle donne deve presupporre la loro bellezza perché restino vulnerabili all’approvazione esterna e siano costrette a mettere allo scoperto quella caratteristica vitale e sensibile che è l’autostima.

La bellezza e il suo mito diventano uno strumento cruciale come sintesi di coercizione, dominio psicologico e sociale che attraverso quello fisico diventa una valuta in circolazione nel mondo maschile: nella nostra economia consumistica bellezza e ricchezza vivono specchiate e i due concetti sono diventati paralleli in una feroce ideologia che Wolf definisce la Qualifica Professionale della Bellezza

Rifiutare la violenza di genere significa rifiutare il costante sguardo maschile sul nostro corpo, il costante controllo dei nostri spazi

Giornata contro la violenza sulle donne

Quello che alle donne viene chiesto è di essere belle come se fosse una qualifica professionale; in questo senso bisogna comprendere e si comprende come l’uso del mito della bellezza sia assolutamente politico e che c’entri poco con un discorso meramente esteriore ed estetico. Il mercato del lavoro ha usato questa dinamica e l’ha affinata per farla diventare un mezzo di discriminazione legittima nei confronti dell’occupazione femminile. 

Inoltre, quel che il saggio asserisce è che la qualifica professionale della bellezza fa restare le donne materialmente e psicologicamente povere, sottrae denaro e tempo, stanca le donne fino a stremarle. Una stanchezza intensificata dai rigori che questa qualifica professionale impone: “ogni sistema lavorativo che dipenda dalla coercizione esercitata su una forza lavoro per costringerla ad accettare cattive condizioni e compensi non equi ha dovuto riconoscere la validità di mantenere esausta questa forza lavoro per impedirle di provocare guai”. 

E ancora, quest’ideologia feroce tiene le donne isolate, e usa il corpo della donna per trasmettere il suo ruolo economico: la valutazione delle donne come bellezze e non come lavoratrici le conduce in un turbine di vere ingiustizie economiche di cui sono vittime sul posto di lavoro: “benefici selettivi, nessuna sicurezza di mantenere il posto di lavoro, false promesse e contratti senza valore”. 

Quando si parla di dire no alla violenza sulle donne, spesso si dimentica un fattore politico, sociale, economico che è quello una donna si trova ad abitare, tra pubblico e privato, tra percezione personale e sguardo collettivo

Bellezza oggi è uno standard a cui bisogna adeguarsi, è legato agli stereotipi di genere, alle aspettative, alla percezione, è un modello asfittico che giornali, riviste – prima – e social e piattaforme – dopo – contribuiscono a diffondere, e spesso a scardinare in modo non proprio corretto. Il mito della bellezza oggi viene declinato in una maniera diversa da quella teorizzata e analizzata da Wolf, poiché non si chiede più di indossare semplicemente gonne o tacchi in ufficio, ma la sorveglianza estetica ed etica sul corpo delle donne ha assunto una dinamica più subdola ovvero accettare tutto, l’inadeguatezza, l’urgenza e l’obbligo di piacersi.

I social, come spiega la filosofa Maura Gancitano, “da un lato diffondono spesso modelli di perfezione spesso falsi o parziali che creano ansia e frustrazione, mentre dall’altro sono veicolo di consapevolezza e distruzione degli stereotipi. La grande fatica sta in questa coabitazione, perché puoi trovarti davanti un contenuto che ti dice che i vecchi valori estetici sono solo una convenzione, e un attimo dopo una rappresentazione di quegli stessi valori che ti farà provare un grande senso di inadeguatezza”. 

Quando si parla di bellezza, estetica, etica, social e rapporto tra pubblico e privato, tra percezione personale e sguardo collettivo, sembra che questi concetti non siano assimilabili né perpendicolari con il concetto di violenza. Ma non è così. Affatto.

Le tipologie del male, come le definisce Carlotta Vagnoli nel suo saggio Maledetta Sfortuna, nascono, si originano da manifestazioni differenti accomunate dalla stessa radice culturale, quella sessista. Uno dei modi più subdoli e intelligenti che il mito della bellezza ha raggiunto per dominare la nostra contemporaneità è quello di aver fatto credere ad una donna che la magrezza, la desiderabilità, la corrispondenza ad uno standard di bellezza abbiano un valore, sociale, economico, politico, sessuale; perché la verità è che la violenza si riproduce in un sistema economico che esclude, blocca, annichilisce le donne attraverso i loro corpi, e che riduce concetti come libertà e indipendenza a parole che spesso non hanno alcun riscontro nella realtà.

25 novembre, oggi è la Giornata contro la violenza sulle donne

La tesi principale esposta nel libro ha a che fare, come abbiamo riportato in precedenza, con lo sguardo maschile, e con quella cultura che sottopone e determina la bellezza femminile come valore auspicabile al solo scopo di tenere le donne in riga, al proprio posto, assoggettabili, deboli, sotto controllo, sottratte di tempo e energie nell’abitare lo spazio pubblico.

Quando si parla di dire no alla violenza sulle donne, spesso si dimentica un fattore politico, sociale, economico che è quello una donna si trova ad abitare, tra pubblico e privato, tra percezione personale e sguardo collettivo, l’ideologia feroce e annichilente della “bellezza diffusa e rafforzata dai cicli di odio verso se stesse provocati nelle donne dagli spazi pubblicitari, dai servizi fotografici, dagli articoli sulla bellezza”; un vero indice della bellezza che è unito ferocemente all’idea di male gaze: come rispecchiare al meglio quello che gli uomini vogliono veramente, quali visi e quali corpi possono attirare l’attenzione costante degli uomini.

Rifiutare la violenza di genere significa anche rifiutare gli standard di bellezza, significa rifiutare le diete dimagranti e la rieducazione fisica che non è dettata da una scelta ma da un vincolo, un obbligo sociale, significa rifiutare l’annichilimento dei corpi, significa rifiutare il costante sguardo maschile sul nostro corpo, il costante controllo dei nostri spazi. Rifiutare la violenza di genere significa anche comprendere cos’è il gender pay gap, cosa significa per una donna lavorare, attraverso e con il proprio corpo, e corrispondere a una aspettativa sociale, economica e personale che limita e non permette di realizzarci.

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Lucia Tedesco

Giornalista, femminista, critica cinematografica e soprattutto direttrice di TechPrincess, con passione ed entusiasmo. È la storia, non chi la racconta.

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