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Big Fish – Le storie di una vita incredibile di Tim Burton – Il filo nascosto

Per la nostra rubrica Il filo nascosto, rimaniamo nel 2003 per una delle vette della carriera di Tim Burton.

La fantasia e le storie sono nutrimenti per l’anima, che quotidianamente ci ispirano, ci stimolano alla creatività e ci aiutano a sopportare e superare i momenti più dolorosi dell’esistenza. Ma a volte succede che la nostra vita è talmente intrisa di racconti e invenzioni da creare una barriera fra noi e la realtà, con conseguenze negative sui rapporti con chi ci vuole bene. Proprio sul contrasto fra il potere salvifico dell’immaginazione e il senso di frustrazione di chi sta accanto alle persone più devote all’immaginazione si basa una delle opere più toccanti di un maestro dell’inventiva come Tim Burton, ovvero Big Fish – Le storie di una vita incredibile.

Ci troviamo nello stesso 2003 in cui ha debuttato Swimming Pool di François Ozon, altra sorprendente riflessione sul contrasto fra realtà e immaginazione a cui abbiamo dedicato il precedente appuntamento con la nostra rubrica cinematografica Il filo nascosto. Un momento complesso per Tim Burton, che sta per diventare padre del suo primo figlio dalla sua compagna e musa Helena Bonham Carter ma viene anche da Planet of the Apes – Il pianeta delle scimmie (poco amato dalla critica nonostante i buoni incassi) e dalla ravvicinata perdita di entrambi i genitori.

Nonostante il controverso rapporto con i genitori (il regista andò a vivere con la nonna a 12 anni), Tim Burton vive comprensibilmente con grande dolore questo momento. Provvidenziale quindi il suo incontro col romanzo di Daniel Wallace Big Fish e in particolare con la sceneggiatura per un potenziale film scritta da John August. Un progetto che dopo l’abbandono da parte di Steven Spielberg trova la sua guida ideale proprio in Burton, capace di conferire a un racconto costantemente in bilico fra realtà e fantasia sia le sue caratteristiche sfumature dark sia la sua proverbiale potenza visionaria, con l’aiuto delle musiche di Danny Elfman.

Big Fish: l’inno di Tim Burton al potere salvifico delle storie e della fantasia

Big Fish

Al centro di Big Fish c’è Edward Bloom (Ewan McGregor da giovane, Albert Finney in età avanzata), che per tutta la vita ha raccontato ai suoi cari storie particolarmente fantasiose sul suo conto e sui principali snodi della sua esistenza, giustificando così le sue numerose assenze per lavoro. Un modo di fare particolarmente inviso al figlio Will (Billy Crudup), che in età adulta si rende conto di non conoscere nessuna reale esperienza del padre. Dopo un allontanamento durato tre anni, i due si ritrovano per uno spiacevole evento: Edward purtroppo è in fin di vita. Will e sua moglie Joséphine (Marion Cotillard) si precipitano nella casa di famiglia in Alabama, dove Edward risiede insieme all’amore della sua vita Sandra (Jessica Lange e Alison Lohman). Il nuovo incontro fra padre e figlio diventa un’occasione per vivere sotto una nuova luce il loro rapporto, sempre attraverso la sfrenata fantasia di Edward.

Edward, che non a caso di cognome fa Bloom come il Leopold di Ulisse di James Joyce, è il Forrest Gump di Tim Burton. Un uomo capace di attraversare epoche e situazioni paradossali, perfettamente a suo agio sia nella guerra di Corea che nell’idilliaca cittadina segreta di Spectre, con due stelle polari a guidare il suo bizzarro cammino. La prima è un’illuminante visione del momento della sua morte avuta da bambino nell’occhio di una strega, immancabilmente interpretata dalla formidabile Helena Bonham Carter. Uno dei tanti elementi magici che caratterizzano i racconti di Edward, che si trasforma in una perfetta giustificazione narrativa per il coraggio e per l’impulsività del protagonista: conoscendo il momento e la situazione precisa della sua morte, può buttarsi a cuor leggero nelle più improbabili avventure.

Fra immaginazione e realtà

Big Fish

L’altro faro per Edward è invece Sandra Templeton, angelica ragazza di cui si innamora a prima vista durante una sua esperienza in un circo, in cui resta a lavorare per tre anni (lasso di tempo che ricorre continuamente in Big Fish) solo per accumulare informazioni sulla donna della sua vita. Ed è proprio al primo incontro fra Edward e Sandra che Tim Burton dedica una delle sue sequenze più amate, rappresentativa del suo modo di intendere il cinema e la narrazione. «Dicono che quando uno incontra l’amore della sua vita il tempo si ferma. Ed è vero. Quello che non dicono è che quando il tempo si rimette in moto va a doppia velocità per recuperare», sentenzia Edward prima di un momento di pura magia cinematografica, che sintetizza il momento del colpo di fulmine fra due innamorati.

In un continuo flusso di coscienza, inframezzato dai faticosi tentativi di chiarimento fra padre e figlio, assistiamo così al racconto della fantastica vita di Edward Bloom, che solo nell’epilogo di Big Fish trova il suo perfetto compimento. A scandire l’esistenza del protagonista è un’unica e ferma convinzione, mai esplicitata ma sempre presente all’interno della narrazione: la concretezza può diventare una gabbia invisibile capace di bloccare la nostra creatività, impedendoci di vivere una vita serena e appagante. Una possibile via di fuga da questa realtà scadente, per citare il Fabietto Schisa di Paolo Sorrentino in È stata la mano di Dio, risiede proprio nell’approccio di Edward, che opta per romanzare ogni evento della sua vita, fondendosi letteralmente con essa e trasformandosi di fatto nel grande pesce protagonista dell’aneddoto relativo alla sua assenza nel momento della nascita di Will.

Big Fish, Tim Burton e Federico Fellini

La voglia di scoperta da parte del giovane Edward si trasforma così in una sorta di viaggio di Gulliver, in cui infatti il protagonista fa la conoscenza di un gigante (il compianto Matthew McGrory), uno dei tanti freak del cinema di Tim Burton capaci di mettere alla berlina il pregiudizio e la superficialità. In un lungo percorso attraverso le epoche e le stagioni, Edward si imbatte poi in una cittadina talmente perfetta e accogliente da diventare un limite al suo desiderio di conoscere il mondo, per poi finire nella dimensione del circo, particolarmente cara alla fonte di ispirazione di Tim Burton Federico Fellini. Una realtà in cui non mancano personaggi bizzarri come l’Amos Calloway di Danny DeVito, fondamentali per il percorso esistenziale di Edward.

Il viaggio è la dinamica narrativa ideale per trasmettere la crescita e la formazione di un individuo. Ma la fantasiosa mente di Edward si spinge oltre, trasformando la sua vita in una sceneggiatura a orologeria, in cui fra lupi mannari sorprendentemente docili e rapinatori mutati in broker di Wall Street tutto magicamente si tiene e trova una propria precisa collocazione. Con il passare dei minuti, Will capisce così che il segreto per comprendere la personalità del padre non sta nel conoscere con dovizia di particolari l’insieme delle sue esperienze, ma nella necessità di accettare il fatto che non c’è soluzione di continuità fra la vera vita di Edward e le sue storie, raccontate così tante volte e con una convinzione così profonda da essersi trasformate in una parte della sua anima, indivisibile dal resto.

Tim Burton e le figure paterne

Mentre Sandra ha imparato a convivere con le stranezze di Edward e ad abbracciare la componente più fantastica della sua personalità, Will deve compiere un percorso inverso al rapporto fra mentore e allievo celebrato più volte dallo stesso Tim Burton (per esempio in Edward mani di forbice ed Ed Wood), mettendo da parte la razionalità e la necessità di connessione con l’esperienza del genitore per imparare l’unica sua grande lezione: immaginare ci aiuta a sopportare le miserie della nostra esistenza e a renderla complessivamente più degna di essere vissuta.

È un percorso doloroso quello di Will, che passa anche per la scoperta di una vera e propria seconda vita del padre, capace di acquistare un’intera città per salvarla dalla bancarotta e per preservare la sua genuinità. Una dimensione però del tutto coerente con la personalità di Edward, che anche di fronte alle lusinghe di Jenny (abitante del posto interpretata ancora da Helena Bonham Carter) non ha mai voltato le spalle alla sua amata Sandra. Will comprende così che i tanti vuoti nella vita di suo padre non sono mancanze, ma spazi da riempire attraverso la fantasia. Un insegnamento che Will ha messo in pratica raccontando a sua volta storie, ma non ha mai compreso fino in fondo, scambiando l’assenza fisica per desiderio di allontanamento e le storie per scuse per una paternità disfunzionale ma sempre generosa e appassionata.

Il finale di Big Fish

Big Fish

Come accennavamo poc’anzi, è proprio nel finale che Big Fish trova il proprio apice, e in particolare nel momento della morte di Edward, che secondo la sua versione il protagonista ha sempre conosciuto ma non ha mai voluto raccontare. D’altronde, il finale è una parte fondamentale di tutte le storie, che non va rivelata prima del tempo.

In un epilogo che richiama ancora Fellini, e in particolare il girotondo conclusivo del suo , realtà e fantasia si affermano definitivamente come un’unica entità, in un funerale che si trasforma in commovente celebrazione della vita, alla presenza di tutte le figure chiave per Edward e per il suo viaggio. Edward può così spirare serenamente, con la gioia di aver portato a compimento il suo racconto e con la certezza di essere stato finalmente accettato dal figlio per com’è realmente.

Ma è a Will che manca un ultimo tassello per aprirsi totalmente alla mente del padre. Tassello che arriva nel momento del vero omaggio funebre a Edward, in cui sfilano i personaggi che il figlio ha imparato a conoscere attraverso le parole del padre, seppur in versioni più realistiche e terrene. La definitiva celebrazione di un uomo talmente dedito alla sua vita da cercare di trasformarla continuamente in una sorta di vita aumentata, non necessariamente del tutto vera ma sempre legata alla sua reale esperienza e ai suoi effettivi desideri.

Big Fish: accettare per comprendere

«Fu quella sera che scoprii che quasi tutte le creature che consideriamo malvagie o cattive sono semplicemente sole. E magari mancano un po’ di buone maniere», dice Edward in uno dei momenti più divertenti e allo stesso tempo emozionanti di Big Fish. Una frase capace di ricordarci che la comprensione dell’altro passa anche per l’accettazione di ciò che non possiamo conoscere fino in fondo e per la consapevolezza che una splendida bugia a volte può essere più utile di una brutta verità. L’immaginazione aiuta a costruire ponti fra isole apparentemente troppo lontane e a trovare un terreno comune fra personalità diverse: Tim Burton e il suo cinema ne sono la prova.

Big Fish

Vi è mai capitato di sentire una barzelletta così tante volte da dimenticare perché è divertente? E poi la sentite di nuovo e improvvisamente è nuova. E vi ricordate perché vi era piaciuta tanto la prima volta. A furia di raccontare le sue storie, un uomo diventa quelle storie. Esse continuano a vivere dopo di lui, e così egli diventa immortale.

Il filo nascosto nasce con l’intento di ripercorrere la storia del cinema nel modo più libero e semplice possibile. Ogni settimana un film diverso di qualsiasi genere, epoca e nazionalità, collegato al precedente da un dettaglio. Tematiche, anno di distribuzione, regista, protagonista, ambientazione: l’unico limite è la fantasia, il faro che ci guida è l’amore per il cinema. I film si parlano, noi ascoltiamo i loro dialoghi.

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Marco Paiano

Tutto quello che ho imparato nella vita l'ho imparato da Star Wars, Monkey Island e Il grande Lebowski. Lo metto in pratica su Tech Princess.

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