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Il grande freddo di Lawrence Kasdan – Il filo nascosto

Per il nuovo appuntamento con Il filo nascosto, parliamo ancora di Lawrence Kasdan e del suo Il grande freddo.

Ritrovare vecchi amici significa fare i conti con due sentimenti contrastanti ma complementari: il primo è l’inevitabile malinconia per la gioventù sfiorita e per la perdita di ciò che non potrà ma più tornare; il secondo è la consapevolezza che, nonostante la lontananza, la crescita e i cambiamenti, le amicizie più radicate nel tempo sono anche una sorta di bolla in cui ritrovare la nostra vera essenza, nascosta dal ruolo che siamo quotidianamente costretti a recitare nel mondo reale. Una dicotomia che costituisce l’ossatura de Il grande freddo, memorabile film del 1983 di Lawrence Kasdan che nel corso degli anni è diventato il termine di paragone per ogni esponente del sempreverde filone dei reunion movies.

Dopo aver parlato di Lawrence Kasdan nel precedente appuntamento con Il filo nascosto dedicato a Chiamami aquila, da lui sceneggiato, ci concentriamo dunque nuovamente su questo fondamentale autore, che nel corso di oltre 40 anni di carriera ha definito l’immaginario collettivo con gli script di blockbuster come Guerre stellari – L’Impero colpisce ancora e I predatori dell’arca perduta e con la regia di veri e propri cult come Brivido caldo, Turista per caso e appunto Il grande freddo. Un’opera con molti antenati, come il cinema di Robert Altman, l’Ettore Scola di C’eravamo tanto amati e La terrazza e soprattutto Return of the Secaucus 7, film del 1980 di John Sayles con molti punti di contatto con quello di Kasdan; ma allo stesso tempo un testo con molti discendenti, fra cui Gli amici di Peter, About Alex, Compagni di scuola di Carlo Verdone e Passato prossimo di Maria Sole Tognazzi.

Il grande freddo: nostalgia, amarezza e disillusione in un memorabile affresco generazionale

Il cuore de Il grande freddo è Alex Marshall, che con il suo suicidio fornisce ai suoi ex compagni di college un valido motivo per ritrovarsi dopo quindici anni. Nella villa di Harold (Kevin Kline) e Sarah (Glenn Close) Cooper arrivano per un rinfresco dopo la cerimonia funebre Sam Weber (Tom Berenger), attore televisivo di successo; l’avvocatessa Meg (Mary Kay Place), che desidera ardentemente diventare madre ma non riesce a trovare un serio compagno di vita; Michael (Jeff Goldblum), cinico e disincantato giornalista; Karen (JoBeth Williams), alle prese con un insoddisfacente matrimonio con Richard; Nick (William Hurt), tormentato dall’esperienza in Vietnam e dalla sua dipendenza dalle droghe. Con loro anche Chloe (Meg Tilly), giovane ragazza di Alex che cerca di colmare la perdita in compagnia dei suoi vecchi amici.

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Con la preziosa collaborazione della co-sceneggiatrice Barbara Benedek, Lawrence Kasdan firma un capolavoro di scrittura e sviluppo dei personaggi, trasformando l’assenza di Alex in una fortissima presenza, capace di fare da collante ai ricordi e ai turbamenti dei protagonisti. Un personaggio che non vediamo mai, ma che in realtà è stato interpretato da un attore d’eccezione come Kevin Costner: è lui a prestare il corpo ad Alex per le scene della vestizione del cadavere nelle battute iniziali, nonché il protagonista di un lungo flashback poi tagliato dal regista a seguito di un’efficace intuizione narrativa.

Non abbiamo infatti alcun bisogno di vedere Alex, perché vive nello sguardo appassionato e addolorato di Sarah (che ha vissuto con lui una relazione clandestina prima di prendere le distanze per salvare il suo matrimonio), nel disagio esistenziale di Nick (che a causa dei suoi demoni interiori è l’unico che si avvicina a una parziale comprensione del suo gesto) e nei ricordi dei suoi amici, in una rimpatriata che si allunga a un intero weekend.

Malinconia e bilanci esistenziali

Il grande freddo

La morte di Alex mette i protagonisti de Il grande freddo di fronte alla fine e al fallimento di un’epoca. Una generazione di utopisti e aspiranti rivoluzionari si trova infatti costretta a constatare il crollo dei propri ideali e ad accettare un triste e doloroso compromesso con la realtà. Le parole di Nicola Palumbo, che nel malinconico finale di C’eravamo tanto amati sentenziava «Credevamo di cambiare il mondo invece il mondo ha cambiato a noi», risuonano nell’amarezza di Meg, che ha idealisticamente abbracciato la legge per poi ritrovarsi a difendere furfanti, nel disilluso approccio al giornalismo di Michael, sintetizzato dalla sua folgorante battuta «Dove lavoro io abbiamo una sola norma editoriale: non scrivere niente di più lungo che un uomo medio non legga durante una cacata media», e nella presa di coscienza di Harold, che si chiede «Chi l’avrebbe detto, che noi due avremmo fatto i soldi? Due contestatori».

La morte di un amico porta con sé bilanci esistenziali e nostalgia. Ma la nostalgia non è solo malinconia e tristezza; può essere anche una calda coperta con cui ripararsi da una vita diversa dalle nostre aspettative e da quel mondo là fuori che la stessa Meg definisce gelido in uno dei momenti più toccanti de Il grande freddo. Ed è qui che la scrittura di Kasdan e Benedek compie un altro miracolo, trasformando un’isolata villa della Carolina del Sud in un microcosmo in cui chiunque può riconoscersi e gli specifici dilemmi di una generazione di ex sessantottini in un ritratto universale dello smarrimento dei trentenni. Una dinamica affrontata con declinazioni diverse anche da pietre miliari come Un mercoledì da leoni e dalle opere di Stephen King (It su tutte), che ne Il grande freddo trova però un connubio difficilmente replicabile di musica, immagini e dialoghi.

La colonna sonora de Il grande freddo

Il grande freddo

Gli anni ’60 in cui sono cresciuti i protagonisti forniscono a Lawrence Kasdan un pretesto perfetto per una colonna sonora da urlo, in cui spiccano (You Make Me Feel Like) A Natural Woman di Aretha Franklin, You Can’t Always Get What You Want dei Rolling Stones, I Heard It through the Grapevine di Marvin Gaye e A Whiter Shade of Pale dei Procol Harum. Brani che non sono utilizzati solo come accompagnamento sonoro di un evento o di un dialogo, ma anche con la funzione di descrivere un preciso stato d’animo. Accade così che l’esecuzione al pianoforte durante il funerale di Alex di You Can’t Always Get What You Want si trasformi in potente evocazione di esperienze comuni vissute anni prima, mai specificate ma paradossalmente tangibili per lo spettatore. Un lavoro di scrittura e regia tutto in sottrazione, efficace proprio perché basato su emozioni e stati d’animo universali.

Non meno importante è l’utilizzo che Lawrence Kasdan fa di A Whiter Shade of Pale, che a differenza dei successivi The Commitments, I cento passi e I Love Radio Rock, dove sprigiona tutta la sua forza evocativa in scene emotivamente travolgenti, in questo caso è il sommesso accompagnamento a uno strepitoso dialogo corale sul tempo che passa e sull’attaccamento al bagaglio culturale della gioventù. Doverosa poi una menzione alla sequenza dello scatenato ballo in cucina sulle note di Ain’t Too Proud to Beg dei The Temptations, che non è solo una delle scene più ricordate e citate de Il grande freddo, ma è stata anche capace di fare scuola in ambito pubblicitario: impossibile infatti tenere il conto dei successivi spot televisivi che hanno sfruttato questa intuizione per pubblicizzare prodotti per la casa e per la famiglia.

Il lascito de Il grande freddo

Il grande freddo

Anche se Il grande freddo ha acquisito una difficilmente attaccabile statura nel panorama cinefilo, spesso lo si vede attaccato con una delle critiche più dolorose per un film, quella di essere “invecchiato male”. Il lavoro di Lawrence Kasdan non ha certo bisogno della nostra difesa, ma spiace osservare la riduzione al particolare periodo post Sessantotto di una dinamica così universale e vedere scambiare il minimalismo della messa in scena per incuria tecnica. Scandagliando le pieghe de Il grande freddo si possono invece cogliere intuizioni registiche tutt’altro che banali, nonché particolari capaci di raccontare un’intera storia senza l’ausilio di alcuna parola.

È questo il caso della ripetuta apparizione della figura del polpo, che con i suoi otto tentacoli è la perfetta rappresentazione dei protagonisti de Il grande freddo, cioè otto persone protese verso direzioni diverse ma indivisibili l’una dall’altra. Ma le finezze di Kasdan non si fermano qui: impossibile non citare i vari brevi filmini casalinghi registrati durante il weekend, momenti di leggerezza ma anche di confessioni condivise, la collocazione dei posti a tavola che richiama le successive dinamiche fra i personaggi e il commovente pianto sotto la doccia di Glenn Close, capace di descrivere meglio di intere pagine di sceneggiatura la commistione di dolore, rimpianto e rimorso che caratterizza il suo personaggio.

Il controverso finale de Il grande freddo

Il grande freddo

Da sceneggiatore di straordinario livello, Lawrence Kasdan dà il suo meglio nella caratterizzazione dei personaggi, dando vita a un racconto corale in cui ognuno degli otto protagonista ha una precisa collocazione narrativa e tematica. A restare impressa nel cuore dello spettatore è soprattutto Glenn Close, unica candidata all’Oscar come migliore attrice non protagonista per Il grande freddo. La sua Sarah è un mistero in continua evoluzione, rappresentazione plastica degli inaspettati segreti e dei potenziali atti di amore e generosità che albergano nelle persone più nobili d’animo.

Una donna da sempre associata all’affidabilità e alla serietà che compie prima l’errore di cedere a una passione mai del tutto sopita ferendo il proprio marito, e poi sceglie di rimediare al proprio sbaglio acconsentendo al più dolce dei tradimenti. L’unico modo per soddisfare il bisogno di maternità di Meg con una persona a lei vicina e affidabile è infatti quello di lasciare che suo marito faccia l’amore con lei, cosa che puntualmente avviene in una delle scene di sesso più tenere e goffe allo stesso tempo.

Una svolta particolarmente criticata all’epoca, ma che in realtà racchiude il senso dell’intero film, costantemente in equilibrio fra amore e frustrazione e fra amarezza e dolcezza. Elementi sempre presenti nel materno sguardo di Sarah e nei suoi occhi rigati dalle lacrime o illuminati dalla ritrovata felicità. Uno spirito in sintonia con quello di Nick, che grazie alla sontuosa prova di William Hurt sa trasformarsi in maschera tragica di un reduce depresso, impotente e amareggiato dalla vita in solida spalla su cui piangere o in fidato confidente con cui litigare anche aspramente poco prima di chiudere l’alterco con un sentito abbraccio.

Un gruppo di personaggi specchio di un’intera generazione

Ma ogni personaggio de Il grande freddo è a suo modo esemplificativo di un malessere esistenziale e sociale. È questo il caso di Karen, che mostra senza alcun tipo di filtro sia la propria insoddisfazione per un matrimonio infelice sia la fiamma di passione mai spenta per Sam. Proprio quest’ultimo, non a caso somigliante al Tom Selleck di Magnum, P.I., è un altro personaggio esemplare dell’infelicità di tutto il gruppo: è riuscito a raggiungere fama, popolarità e ricchezza, ma si vergogna di ciò che fa per guadagnare soldi e soffre per la fine del suo matrimonio, per poi vivere sulla propria pelle l’umiliazione della differenza fra televisione e realtà, simboleggiata dalla sua incapacità di fiondarsi a bordo dell’auto in maniera analoga a quella del suo personaggio nella serie di cui è protagonista.

Scorci di delusione e tristezza che emergono anche nella già citata situazione sentimentale e lavorativa di Meg, nel matrimonio in bilico sugli errori di Sarah e Harold e nel personaggio di Chloe, estranea al resto del gruppo e proprio per questo in grado di giudicare con la giusta dose di lucidità e disincanto la loro situazione. Una Lolita sospesa fra un dolore insopprimibile, un atteggiamento da finta svampita e il desiderio di aprirsi nuovamente al mondo e all’amore nonostante il lutto. L’ennesimo elemento ben calibrato e a fuoco di un racconto che appare estremamente spontaneo nel suo ondeggiare fra riso e pianto, ma in realtà è frutto di tangibile lavoro sulla scrittura e sulla caratterizzazione dei personaggi.

Quello che cambia e quello che resta

Il grande freddo

Seduta di terapia di gruppo per un’intera generazione, struggente inno alla fallibilità della vita e delle nostre scelte, sincera e disillusa fotografia di un’età in cui si comincia a capire che ciò che siamo diventati è con ogni probabilità solo una debole approssimazione di quello che avremmo voluto essere. Questo e molto altro è Il grande freddo, che anche a distanza di 40 anni dall’uscita è ancora uno straordinario racconto sulla nostalgia, sull’amicizia, su quello che cambia e su quello che invece resta.

Io credo nella vecchia teoria che tutti fanno tutto con il fine di scopare.

Il filo nascosto nasce con l’intento di ripercorrere la storia del cinema nel modo più libero e semplice possibile. Ogni settimana un film diverso di qualsiasi genere, epoca e nazionalità, collegato al precedente da un dettaglio. Tematiche, anno di distribuzione, regista, protagonista, ambientazione: l’unico limite è la fantasia, il faro che ci guida è l’amore per il cinema. I film si parlano, noi ascoltiamo i loro dialoghi.

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Marco Paiano

Tutto quello che ho imparato nella vita l'ho imparato da Star Wars, Monkey Island e Il grande Lebowski. Lo metto in pratica su Tech Princess.

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